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Il Dibattito: Chi è il più grande numero 10 della storia del calcio italiano?

In tutta la sua storia, il nostro campionato ha visto passare i migliori talenti del panorama mondiale, tra cui tre numeri 10 italiani che hanno acceso il dibattito su chi fosse il migliore in assoluto. Una domanda che ha probabilmente una risposta diversa, in base alle generazioni, a preferenze personali o alle statistiche tanto amate da alcuni addetti ai lavori.

Il numero 10 è caratterizzato da un'importanza particolare nel calcio, è la maglia che si affida di solito al miglior giocatore in rosa e porta con se solitamente, un peso che non tutti riescono a sopportare.

I tre giocatori scelti dai membri del team di bet365 News, hanno avuto il coraggio ma anche la bravura e la magia di chi è chiamato a portare questo fardello che è il numero 10. Dunque abbiamo provato a rispondere a questa domanda tanto complicata per i diversi modi di vedere e vivere il calcio, chi è il miglior numero 10 italiano nella storia dela Serie A?

Roberto Baggio, un artista prestato al calcio

‘Ho mostrato, che a volte l’impossibile, può diventare possibile’ Roberto Baggio.

Partiamo dalla fine, dalla sua ultima partita in Serie A. Era il 16 maggio del 2004, ed in un pomeriggio di primavera lasciava il calcio il ‘Divin Codino’, un momento di tristezza quasi straziante per tutti gli appassionati del bellissimo sport che è il calcio.

Un San Siro gremito, per festeggiare la vittoria del 17º scudetto del Milan, ha dato l’addio al più grande numero 10 italiano di tutti i tempi, forse anche uno dei migliori della storia del calcio mondiale. Al minuto ’84, tutto lo stadio si alza in piedi, i bambini che non hanno goduto a pieno del talento di Roberto Baggio applaudono, i più ‘vecchi’ piangono e questo la dice già lunga su quello che è stato per il calcio italiano. Una standing ovation degna dei più grandi campioni che hanno calcato il campo della Scala del Calcio, poco importa che non fosse il Bernabéu. Maldini lo abbraccia e lo ringrazia, ed è lì che Baggio si accorge che è veramente finita, quella carriera stellare ma tormentata dagli infortuni sin dagli inizi, tanto che un giornalista descrisse la sua storia come ‘una lunga odissea sui lettini degli ospedali’.

Ma Roberto si rialzava, dalle ceneri come una fenice ogni volta, facendo ricredere tutti, dagli allenatori alle squadre che lo avevano lasciato andare troppo facilmente perché lo consideravano ‘finito’. Che poi diciamocelo, erano gli stessi che lo ricordavano per quel rigore sbagliato a Pasadena che ha negato la gioia mondiale all’Italia, ma come dice una sua stessa citazione ‘i rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli’.

Roberto Baggio è stato un artista del calcio, sì perché le sue movenze erano paragonabili alle pennellate delicate dei migliori artisti del panorama mondiale, ‘un Raffaello’ scrive qualcuno di lui per il suo modo aggraziato di giocare a calcio ma anche per la sua efficacia in campo con cui mortificava i suoi avversari.

I paragoni ed i soprannomi attribuitigli sono tanti, da parte di giornalisti, amanti del calcio, suoi compagni di squadra ed anche da parte dei suoi allenatori. Per citarne uno su tutti, probabilmente il suo ‘padre calcistico’, Carlo Mazzone che dice questo di lui: ‘È stato il fantasista numero uno, superiore a Meazza e Boniperti in Italia, e fra i primissimi subito dopo Maradona, Pelé e forse Cruijff. Senza problemi alle ginocchia, sarebbe stato il numero uno al mondo’. E ancora Platini che lo definì ‘un nove e mezzo’, e non aveva proprio tutti i torti, perché per gli amanti delle statistiche, Roberto Baggio segnò 205 gol in Serie A e ben 27 in Nazionale, numeri che lo mandano dritto tra i migliori realizzatori del calcio nostrano.

Torniamo però alla magia, perché è di questa che è fatto il calcio del ‘Divin Codino’, appunto ‘Divin’ aggettivo che non era riferito all’iconico codino che Baggio utilizzava per raccogliere la sua folta chioma. Di divino c’era il suo calcio, il suo tocco di palla, la sua visione di gioco e del calcio più in generale, caratteristiche che tra l’altro gli hanno garantito la vittoria del Pallone d’Oro nel 1993, uno dei pochi italiani ad averlo vinto.

Quella magia che gli è valsa un posto in una frase, che è ormai diventata storica, di una canzone cantata con una voce un po’ triste da Cesare Cremonini che racchiude l’importanza che ha avuto Roberto Baggio per una generazione di appassionati ed amanti del calcio, che fa così: "Da quando Baggio non gioca più non è più domenica

Francesco Totti: quando meno è più. Non solo un calciatore

C’è una celebre frase di Johan Cruijff che recita: “Giocare a calcio è semplice, ma giocare un calcio semplice è la cosa più complicata che ci sia.” Credo che in queste parole si possa riassumere la grandezza di Francesco Totti. "Er Pupone" è stato uno di quei calciatori in grado di rendere semplice l’impossibile. La sua sensibilità tecnica gli ha permesso di semplificare la vita dei compagni e di cambiare totalmente il modo di stare in campo.

L’influenza di Francesco Totti sul terreno di gioco è paragonabile a quella di pochissimi altri calciatori. Totti dettava ritmi, tempi e spazi non solo dei suoi movimenti, ma anche di quelli dei compagni di squadra e, di conseguenza, anche degli avversari.

Oltre a una tecnica sopraffina, credo che la sua più grande qualità sia stata la propriocezione, ovvero la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista.

Spesso, nel calcio, questa caratteristica viene banalizzata con l’espressione “intelligenza tattica”, ma nel caso di Francesco Totti il significato va oltre il termine e assume un valore quasi mistico.

Francesco Totti è stato il re della rinuncia. Rinuncia a un tempo di gioco, a un controllo, a uno sguardo e, più in generale, a tutto ciò che poteva risultare prevedibile.

Inutile soffermarsi sulla tecnica del numero 10 giallorosso, impressa nella memoria di tutti. Vale invece la pena riflettere sulla sua capacità di illuminare quando si brancola nel buio. La genialità risiede qui: quando il meno diventa più. Perché controllare il pallone, girarsi e osservare il posizionamento dei compagni quando la tua vista periferica ha già analizzato tutto e la tua sensibilità tecnica ti permette di sfoderare un inaspettato colpo di tacco in grado di tagliare in due la difesa avversaria?

Perché addomesticare il pallone e cercare un passaggio orizzontale quando puoi lanciare un compagno in porta con un tocco di prima Perché stoppare il pallone in area di rigore e sistemarlo sul piede forte quando puoi calciare al volo con quello debole? Perché calciare con potenza, con l’affilatezza di un coltello quando si può ottenere lo stesso risultato con la delicatezza di un cucchiaio?

Il termine rinuncia, oltre a descrivere perfettamente il Francesco Totti calciatore, può essere utilizzato anche per comprendere chi è stato il Francesco Totti uomo. Totti ha rinunciato a soldi, fama e trofei pur di restare a Roma, nella sua Roma. Senza compromessi. Sempre pronto a combattere contro potenze esageratamente più attrezzate di lui. Giocare in un grande club come il Milan, il Real Madrid o il Manchester United (tutte squadre che hanno provato a convincerlo a trasferirsi) gli avrebbe senza dubbio permesso di esprimersi sui palcoscenici che meritava, e con compagni di squadra che avrebbero valorizzato al meglio le sue qualità tecnico-tattiche.

Eppure, Totti è il simbolo vivente di un valore profondo: a volte, tutti i benefici economici del mondo non possono competere con l’amore.

A mio parere, il numero 10 deve trascendere dal campo e diventare un simbolo anche al di fuori di esso. O meglio, attraverso le sue gesta sul prato verde deve ispirare emozioni che possano suscitare un paradossale senso di ammirazione e distacco abbinato a un profondo rispecchiarsi nell’idolo.

Ed è per questo che, in Italia, nessun numero dieci può competere con la grandezza di Francesco Totti. Poiché nessuno ha raggiunto un livello extra-calcistico pari a quello di Totti.

Totti è Roma e la Roma. Un simbolo internazionale di rivoluzione. Un rifiuto dell’apparente invincibile potere del denaro. Un’ode all’appartenenza geografica e culturale. A Roma Totti è ovunque. Nei murales, nei graffiti, la sua maglia è presente in bar e ristoranti, ma soprattutto nella voce e nel cuore della gente. Totti a Roma è quello che Maradona è Napoli, Messi in Argentina, Cruijff in Olanda o Pelé in Brasile: un simbolo che va oltre il calcio. Il suo accento romanesco, unito alla simpatia e alla spregiudicatezza, tratti spesso associati stereotipicamente ai cittadini della capitale, lo hanno reso un’icona che va oltre i confini del calcio.

Totti è senza dubbio l’orgoglio di Roma e della Roma, ma la sua grandezza lo ha portato a diventare un simbolo di tutto il calcio italiano che, seppur con riservatezza, ha imparato ad amarlo.

Alessandro Del Piero: lealtà e non solo!

Per me non c’è discussione. Il dieci italiano più forte di tutti i tempi è la leggenda bianconera. Ben 705 presenze e 290 gol segnati con la maglia della Juventus, la sua squadra del cuore. Nato a Padova, Del Piero ha fatto sognare non solo gli juventini ma anche i tifosi azzurri. Dal gol “arcobaleno” contro la Fiorentina, alla rete contro Jens Lehmann al Westfalenstadion durante i Mondiali del 2006, il Pinturicchio ha lasciato tanti segni di classe sia per il club che per la nazionale italiana.

La carriera di Del Piero inizia nella sua città di nascita, Padova, dove dopo solo 14 presenze in Serie B, viene subito strappato via dalla Juventus, club dove passerà le successive 19 stagioni calcistiche.

Da lì si mette subito in mostra e la Juventus trova un numero 10 che va ad aggiungersi alla lista di prestigiosi calciatori come Platini, Boniperti, Baggio e tanti altri. Nella terza stagione, si laurea campione d’Europa dopo la vittoria ai rigori contro l’Ajax nella finale della UEFA Champions League allo Stadio Olimpico. Resta il rammarico di non aver calciato il penalty decisivo. Del Piero era infatti il quinto rigorista designato ma, grazie alle parate di Peruzzi, la Juventus ha vinto prima del quinto rigore.

Nelle successive annate, Del Piero continua a trascinare la Juventus, raggiungendo altre tre finali di UEFA Champions League, tutte perse prima contro il Borussia Dortmund, poi contro il Real Madrid e infine contro il Milan.

Il palmarès del Pinturicchio non può essere messo in discussione: 6 scudetti, 1 UEFA Champions League, 1 Mondiale e tante altre coppe nazionali rendono l’icona della Juventus uno dei capitani più vincenti della storia del club! Non ricordo così tanti numeri dieci che hanno avuto un impatto simile sia con il proprio club che con la nazionale!

Non dimentichiamoci che Del Piero ha segnato 27 gol in 91 presenze con gli Azzurri, che per l’Italia sono tanti visto che il record è ancora del mitico Gigi Riva (quota 35). Persino alcuni centravanti puri come Christian Vieri e Filippo Inzaghi non sono riusciti a scavalcare Del Piero, e giocavano molto più vicino alla porta avversaria!

A parte i tantissimi gol, Del Piero creava tante occasioni da rete, basta chiedere al suo compagno di reparto David Trezeguet, che ha beneficiato per anni dei pregevoli assist di pinturicchio.

La mia caratteristica preferita di Del Piero è stato il suo tiro a giro! Il capitano è senza dubbio il creatore del tiro a giro, che con il tempo è diventato il suo marchio di fabbrica con cui firmava tante delle sue reti. Partiva dalla sinistra accarezzando la palla, per poi rientrare e lasciar andare un tiro, poi divenato alla “Del Piero”, che andava ad infilarsi all’incrocio dei pali, lasciando il portiere avversario senza speranze. Lorenzo Insigne e altri italiani dopo pinturicchio hanno cercato di padroneggiare la conclusione a giro, ma nessuno è ancora ai livelli di Alessandro Del Piero, il numero 10 italiano più forte di sempre!

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