Considerato come uno dei migliori tennisti italiani di sempre, ha battuto più volte tutti i rivali più grandi della sua epoca aggiudicandosi record e vittorie e avvicinando tantissimi tifosi a questo sport.
Dici tennis in Italia e pensi a lui, ad Adriano Panatta, l'uomo che ha trasformato questo sport facendolo diventare da elitario a fenomeno di massa. Arrivò lui e tutti negli anni 70 iniziarono a prendere quell'oggetto misterioso chiamato racchetta in mano. Nella vita le cose non capitano per caso: la sua fortuna fu quella di avere un padre che viveva a stretto contatto con il mondo del tennis lavorando come custode al club dei Parioli. Inevitabile che quel piccolo bambino romano, dalla folta capigliatura, iniziasse ad avvicinarsi fin dalla tenera età a questo gioco al quale erano in pochi a dedicare attenzione.
Il percorso di crescita lo portò a contatto con i maestri Wally Sandonnino e Simon Giordano che vedendo in lui delle chiare potenzialità gli insegnarono nozioni tattiche, comportamentali e tecniche per consentirgli di arrivare ad uno step successivo. La prima volta che ebbe modo di mettersi in mostra fu proprio ad un torneo al Tennis Club Parioli, lui che nel frattempo si era trasferito in zona Eur con la famiglia. Nel torneo riuscì a battere un avversario come Roberto Valerio, considerato da lui un punto di riferimento pressoché inarrivabile.
Da qui arrivò probabilmente la spinta emotiva per quello che sarebbe andato a realizzare in seguito. Da qui arrivò certamente la chiamata di Mario Belardinelli che lo portò al centro federale di Formia. A neanche 18 anni compiuti, si cimentò nel circuito amatoriale agli Internazionali d'Italia, i futuri Open, fermandosi al secondo turno causa sconfitta con Ray Ruffels. In Australia, però, capì definitivamente che la sua strada era quella grazie al successo contro uno dei migliori tennisti del momento come Clark Graebner al Queensland Championship di Brisbane. Possiamo dire che è qui che nacque il mito di Panatta.
Nel suo libro "Il tennis lo ha inventato il diavolo" Panatta cita l'ex campione croato, oggi uno degli allenatori di Novak Djokovic, Goran Ivanisevic. Quest'ultimo sostiene che il tennista ha cinque avversari: il giudice di sedia, il pubblico, i raccattapalle, il campo e se stesso. E a chi gli chiedeva dell'avversario oltre la rete rispondeva: "C'è anche quello, ma è il problema minore".
In effetti per primeggiare in questo sport, serve avere una forte mentalità per reggere alle pressioni e avere la giusta lucidità per vincere le gare. Se le capacità tecniche di Panatta erano sotto gli occhi di tutti, con uno stile che si può definire sia classico che moderno allo stesso tempo, era la sua personalità a spiccare in particolar modo finendo per conquistare il pubblico.
Non si fa torto a nessuno se lo si definisce il miglior tennista italiano di tutti i tempi. Il suo palmarès conta 10 tornei del circuito maggiore in singolare su 26 finali disputate, oltre a 18 titoli in doppio su 28 finali. Nei suoi anni migliori ha sfidato tutti i campioni della sua epoca, da Connors a Borg, da Vilas a Gerulaitis, da Lendl a Solomon, riuscendo ad imporsi in più occasioni.
Nessuno, al di fuori di lui, era mai stato capace di fermare Borg sulla terra rossa parigina: Panatta addirittura ci riuscì in due occasioni, nel 1973 e nel 1976, l'anno del suo trionfo al French Open. Sempre nel 1976 vinse i due maggiori tornei sulla terra rossa, Roma e Parigi, entrambi conquistati rimontando nel primo turno incontri praticamente persi (undici match-point contro l'australiano Warwick a Roma, uno contro il cecoslovacco Hutka a Parigi). Ci fu poi la Coppa Davis, la prima – storica – vinta da una squadra italiana, conquistata sempre nello stesso, meraviglioso anno.
Dritto micidiale, battuta potente, senza contare la sua capacità di scendere in rete con volée di dritto e di rovescio impeccabili o di effettuare smorzate di grande raffinatezza. Queste erano le caratteristiche del campione romano nonostante le quali, verrebbe da dire, il terreno di gioco nel quale otteneva i risultati più importanti era quello in terra battuta. Nel 1983, complice un rendimento ormai in calo, decise di appendere la racchetta al chiodo.
Non mollò, comunque, il suo mondo decidendo di diventare dall'anno successivo direttore tecnico del tennis italiano - incarico ricoperto fino al 1992 - e capitano di Coppa Davis - fino al 1997 - ruolo nel quale ha totalizzato 29 presenze. Nel mezzo la passione della scrittura, grazie alla quale è arrivato a pubblicare quattro libri, nei quali racconta gli anni di successi nello sport con aneddoti e curiosità, e la televisione con il ruolo di opinionista. Vicino alla gente, in fondo c'è sempre stato trascinandola dalla propria parte grazie alle vittorie e ad uno stile inconfondibile.
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