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Mondiale 1950: la storia del Maracanazo

16 luglio 1950. Finale della coppa del mondo. Brasile-Uruguay. La partita più importante della storia del calcio. Cos'è stato il "Maracanazo".

“Per vedere quella partita, i moribondi rinviarono la loro morte ed i neonati si sbrigarono a nascere.” E. Galeano.

16 luglio 1950, una data impronunciabile in Brasile. Una ferita sportiva ancora aperta, che ha avuto conseguenze sociali e politiche che per anni hanno attanagliato il paese.

Il contesto storico

La Seconda Guerra Mondiale è finita da poco. Il mondo fatica a ricominciare e l’Europa è il continente che ha subito le ripercussioni più gravi. L’economia ha bisogno di tempo per tornare stabile e in molte città sono ancora presenti le macerie. Ma la voglia di tornare alla normalità è tanta. Per ripartire, c’è bisogno di svago, divertimento e spensieratezza, tutto ciò che il calcio riesce a regalare alla gente. Nonostante lo stop durato 12 lunghi anni, c’è voglia di organizzare un nuovo mondiale.

Come accennato in precedenza, l’Europa è ancora devastata. Inoltre, le ultime due edizioni sono state organizzate in Italia e in Francia. C’è voglia e bisogno di cambiare aria e voltare pagina.

La scelta ricade quindi sul Brasile, un paese che non ha subito danni a causa della guerra. In quel periodo, il paese carioca è governato da Getulio Vargas, con un regime non propriamente democratico. Il leader brasiliano vede nel mondiale di calcio una ricca opportunità per affermare la nazionale brasiliana, prima sportivamente e poi socialmente. Un mondiale organizzato in casa e la conquista del trofeo avrebbero aumentato il consenso del popolo.

Il percorso del Brasile per arrivare in "finale"

La nazionale, oggi conosciuta come verdeoro, all’epoca vestiva di bianco ed era nettamente tra le favorite. Il percorso del Brasile inizia come ci si aspettava: con tante vittorie. Nel primo girone vengono eliminate due tra le favoritissime: l’Italia, campione in carica, e l’Inghilterra, che alla sua prima partecipazione viene considerata la favorita assoluta. Sia gli Azzurri che la nazionale dei tre leoni vengono annientati agevolmente dalla squadra brasiliana.

All’epoca, per vincere il mondiale non c’era una finale secca, ma bisognava conquistare più punti delle altre due avversarie. All’ultima giornata si scontrano Brasile e Uruguay. I carioca hanno 4 punti, mentre l’Uruguay insegue a una lunghezza di distanza. Anche se non è esattamente una finale, vista la situazione di punteggio, lo diventa. Al Brasile bastano due risultati su tre per laurearsi campione. Ma l’Uruguay, seppur partendo da sfavorito, non ha alcuna intenzione di arrendersi.

I giorni che precedono la “finale” sono giorni di festa per il Brasile. Il popolo brasiliano sa quanto i propri beniamini siano favoriti e in tutto il paese si vendono oltre mezzo milione di magliette con scritto: BRASIL CAMPEAO 1950 (Brasile campione 1950). I giocatori della Seleçao vengono assaltati per le strade e ricevono complimenti anticipati per la vittoria.

Arrivato il giorno della finale, la squadra non ha neanche l’opportunità di mangiare, perché tutti i membri del governo ci tengono a congratularsi, stringere la mano e scattare foto con i “futuri campioni del mondo”.

Maracanzo: la finale del mondiale del 1950

Il Maracanã si veste a festa. Stabilire con precisione quante persone fossero presenti allo stadio è impossibile, ma si dice che a Rio fossero oltre 200.000. L’allegria all’interno dello stadio è palpabile, i rumori delle voci festanti sono assordanti. Numerosissimi striscioni annunciano la vittoria del Brasile. La partita per tutti sembra essere solo una formalità. Per tutti tranne che per gli undici uruguaiani in campo.

Il primo tempo finisce 0-0, ma il Brasile domina in lungo e in largo e tutti sanno che il gol verdeoro arriverà. E infatti sarà così. A inizio ripresa, Friaça fa esplodere di gioia il Maracanã. Adesso sì, lo stadio può esplodere definitivamente.

L’Uruguay sembra spacciato in quel momento. Già sullo 0-0, vincere sarebbe stata un’impresa. Figuriamoci ritrovarsi in svantaggio di una rete e con la squadra avversaria sostenuta da 200.000 persone.

Per vincere, bisognava giocare con la testa e non con la paura; bisognava essere astuti. Quando una squadra non può vincere con i piedi, deve farlo con la testa. Giocare con la paura, fingersi sicuri e arroganti anche quando tutto intorno sembra remarti contro. Questo l’aveva capito perfettamente Obdulio Varela, il capitano della Celeste. Un mediano robusto, uno di quelli che non tirava mai indietro la gamba. Varela capisce immediatamente che, se il gioco fosse ripreso subito, l’entusiasmo carioca avrebbe distrutto la propria squadra. Così, con lentezza e una finta calma, prese il pallone dalla propria porta e per tornare nel cerchio di centrocampo impiegò oltre un minuto.

Poi si rivolse verso l’arbitro, chiedendo spiegazioni. Varela era convinto che il gol fosse stato segnato in fuorigioco. Con il suo forte accento uruguaiano, urlò all’arbitro: “Orsay!”. Nessuno riusciva a capire cosa stesse succedendo. “Orsay!” non era altro che il modo storpiato di dire offside. L’arbitro non riusciva a capire. Nel frattempo, il tempo passava e lentamente la paura iniziò ad innestarsi all’interno del Maracanã. Quello che poco prima si era rivelato un momento di festa e liberazione si era trasformato in confusione e angoscia. I decibel dello stadio passarono da essere così alti da rompere i timpani a trasformarsi in un perplesso brusio attanagliato dalla paura. Alla fine, il gol viene convalidato. Nonostante ciò, l’ambiente si è freddato. Ormai, nonostante il vantaggio, il Maracanã ha capito cosa vuol dire avere paura. Niente sarà come prima.

La Celeste prende coraggio, trova combinazioni e comincia a vincere contrasti. Fino a quando, al minuto 66, Schiaffino approfitta dell’incertezza del centrale Bigote e pareggia i conti. Al Brasile andrebbe ancora bene il pareggio, ma se prima il Maracanã era impaurito, adesso è letteralmente terrorizzato. Il pubblico sugli spalti e i giocatori in campo sono paralizzati dal timore di chi può perdere tutto. La fobia di chi sa che, dopo un’eventuale sconfitta, non sarebbe in grado di rialzarsi. Varela ordina ai suoi di non guardare in alto. Dice che gli altri non esistono. Conta solo l’Uruguay. E così, la Celeste, nonostante si ritrovi a combattere in undici contro 200.000, tira fuori tutta la “garra charrúa” tipica del paese. Quella grinta di chi sa di non dover arrendersi contro nessuno. La consapevolezza di chi ha già una stella sul petto (il mondiale conquistato nel 1930).

Tredici minuti dopo, la situazione si ribalta. Il diagonale di Ghiggia trova una reazione incerta del portiere Barbosa, che permette alla palla di finire in rete. A questo punto, il Maracanã è gelato. Nessuno ha il coraggio di emettere un fiato. Nessuno ritrova la forza di tifare. Nessuno in campo trova la forza per reagire. La partita si conclude senza occasioni per il Brasile, che è morto sportivamente 11 minuti prima del triplice fischio finale. Il Maracanã è protagonista di un silenzio assordante. L’ossimoro sembra esagerato, ma il silenzio che ci fu a Rio quel 16 luglio del 1950 fu uno dei rumori più strazianti della storia del Brasile.

Maracanazo: le conseguenze della sconfitta

Una depressione generale attanagliò tutto il Brasile e portò anche a numerosi malori. Addirittura a cambi di scenari politici che destituirono Getulio Vargas. L’odio verso Barbosa e Bigote si accanì pesantemente. Inoltre, il fatto che i due ragazzi fossero di colore non fece che aumentare il razzismo già molto presente in Brasile. Barbosa ricevette insulti, ostracismo e astio per tutta la vita. Addirittura arrivò a dichiarare: “La pena carceraria più lunga in Brasile è di trent’anni. Io ne ho scontati cinquanta senza aver commesso nessun reato.”

Da quel momento, il Brasile decise di abbandonare il proprio stile di gioco. L’obiettivo era quello di avvicinarsi al calcio europeo il più possibile. Basta finte, basta dribbling, poche iniziative e tanta concretezza.

Tutto questo durò per 8 anni, fino a quando un ragazzino di 17 anni di nome Pelé decise di ignorare le indicazioni dell’allenatore e di giocare il mondiale in Svezia a modo suo. Nel modo più brasiliano possibile. Un ragazzo di colore aveva riportato il Brasile in alto regalando ai verdeoro la loro prima stella. Combattendo il razzismo nel modo più efficace possibile, essendo sé stesso.

Ma questa è un’altra storia…

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